giovedì 17 dicembre 2009

Gli Antiossidanti

Gli antiossidanti sono delle sostanze in grado di neutralizzare i cosiddetti radicali liberi. Questi ultimi si formano durante i normali processi di produzione di energia, a causa dell’ossigeno necessario. Per essere più chiari, normalmente, solo una piccola parte dell’ossigeno genera queste sostanze, quantità che, in condizioni di riposo, si può valutare intorno al 5 per cento. Quando si pratica attività fisica, soprattutto di resistenza come il ciclismo, il nostro corpo necessita di grandi quantità di ossigeno per produrre tutta l’energia necessaria a far contrarre i muscoli. Il consumo di ossigeno rispetto alle condizioni di riposo può aumentare anche di dieci-venti volte e l’ossigeno che attraversa i muscoli anche di cento-duecento volte. Questo grande aumento del consumo di ossigeno da parte dei muscoli interessati nel gesto atletico può fare aumentare anche di due o tre volte la quantità di radicali liberi prodotti. I radicali liberi sono stati chiamati in causa in molte patologie, anche come causa di tumori, e in particolare nei processi di invecchiamento. Naturalmente non hanno una responsabilità diretta, non sono la causa della malattia o dell’invecchiamento, ma contribuiscono sicuramente alla loro insorgenza e alla loro evoluzione nel tempo. I radicali liberi danneggiano le membrane delle cellule, le proteine e il Dna, l’acido desossiribonucleico, cioè i geni, la sede di tutte le informazioni necessarie alla crescita, allo sviluppo e al funzionamento delle cellule.

Le cause legate all’attività fisica
La necessità di utilizzare molto ossigeno per produrre l’energia necessaria a far lavorare i muscoli causa un aumento della produzione di radicali liberi. Una seconda possibile causa è legata alle modificazioni della circolazione del sangue. La quantità di sangue del nostro organismo non è sufficiente perché tutte le sue funzioni lavorino a pieno regime. Durante l’attività fisica, di conseguenza, aumenta la quantità di sangue inviata ai muscoli e si riduce quella inviata ad altri organi non necessari all’attività fisica stessa, come l’apparato digerente, il fegato, la milza, il rene. A questi organi, e a volte ai muscoli stessi, sia se si esprimono a massima intensità o no, può transitoriamente non arrivare ossigeno a sufficienza per il loro fabbisogno minimo vitale. Al termine dell’esercizio, la ripresa della normale circolazione verso tutti gli organi e il ripristino del giusto apporto di ossigeno possono determinare un aumento della produzione di radicali liberi. Un’altra causa è poi l’aumento della produzione di catecolamine, l’adrenalina, durante l’attività fisica, e queste possono essere una fonte di produzione di radicali liberi. L’attività fisica aumenta, quindi, la produzione di radicali liberi, dannosi per il nostro organismo, ed è stato inoltre evidenziato come si riduca la quantità di sostanze antiossidanti disponibili in grado di neutralizzarli. Questa riduzione può comunque essere attribuibile a un aumento delle necessità del nostro organismo, impegnato a liberarsi da queste sostanze nocive prodotte in eccesso. Aumentando i radicali liberi, viene utilizzata una quota maggiore di antiossidanti disponibili e, di conseguenza, si riduce la loro quantità.

L’allenamento e le abitudini di vita
È normale preoccuparsi e chiedersi se praticare attività fisica non possa fare male. Come al solito, il nostro organismo dimostra ancora una volta di essere una macchina perfetta e intelligente. Grazie al regolare allenamento, infatti, le capacità antiossidanti aumentano e diventano più potenti. L’inevitabile produzione di radicali liberi in eccesso viene così prontamente compensata. Il nostro organismo impara a utilizzare al meglio gli antiossidanti che nell’atleta risultano essere più “bravi” a neutralizzare i radicali liberi. È stato infatti visto come l’attività antiossidante sia proporzionale alle qualità dell’atleta: più è alto il consumo massimo di ossigeno, parametro che misura le doti di resistenza, più potenti sono i sistemi organici antiossidanti. A questo punto è bene citare anche altre cause di aumento della produzione di radicali liberi, come il fumo, l’etilismo e la permanenza in alta quota. Anche la dieta influenza le nostre capacità antiossidanti. È stato dimostrato come un’alimentazione abbondante determini una maggiore produzione di radicali liberi. Paradossalmente, anche un’alimentazione insufficiente determina lo stesso effetto. In esperimenti su animali è stato visto come una riduzione del 40 per cento del cibo assunto spontaneamente migliorasse lo stato di salute, riducesse i radicali liberi e aumentasse le aspettative di vita. Per gli stessi animali, alimentazioni più ridotte causavano esattamente l’effetto opposto. In altre parole, un’alimentazione adeguata qualitativamente e quantitativamente, la pratica regolare di attività fisica, l’astensione dal fumo e l’assunzione moderata di alcolici, sono le migliori armi contro i radicali liberi e le conseguenze di un loro eccesso.

Gli antiossidanti
Quali sono gli antiossidanti che il nostro organismo ha a disposizione? Sono diverse sostanze, tra cui alcune vitamine e un minerale. Le vitamine che svolgono attività antiossidante sono la vitamina E, la vitamina C e la vitamina A. Le vitamine sono sostanze che vengono normalmente fornite dalla dieta e si trovano, generalmente, negli alimenti di origine vegetale (frutta e verdura). Il minerale con la nota proprietà antiossidante è il selenio. Il selenio, nella dieta, si trova soprattutto nelle carni e nei pesci, il cui contenuto dipende dal selenio che essi assumono con l’alimentazione. Per le loro attività antiossidanti il selenio e la vitamina E sono spesso citati come sostanze antivecchiaia.

Altri antiossidanti
Fra gli altri antiossidanti, citiamo l’ubichinoni e il coenzima Q, fattore indispensabile alla produzione di energia per via aerobica e che si trova nella carne di vitello, nelle sardine, negli spinaci e nelle noccioline. il CELLFOOD gocce ( deutrosulfazyme), la Same ( S-Adenosil Metionina, antiossidante, disintossicante epatico e donatore di gruppi metile, il glutatione, sostanza conosciuta in medicina come disintossicante, che viene infatti impiegato contro i danni provocati dall’etilismo e nelle intossicazioni da farmaci. Un ultimo antiossidante da citare è l’acido lipoico, contenuto nei vegetali e, soprattutto, negli spinaci.

Antiossidanti e sport
Molte ricerche hanno cercato di evidenziare danni da carenza di antiossidanti e gli effetti della loro assunzione sull’attività fisica e sulla prestazione. La più studiata è la vitamina E. Dai risultati ottenuti, non è facile trarre conclusioni. Apparentemente gli antiossidanti non influenzano la prestazione, mentre proteggono i tessuti dai danni legati all’attività fisica stessa. In particolare, sarebbero meno importanti i danni al muscolo, danni legati alla sola attività fisica e al loro uso intenso, senza naturalmente influenzare i possibili danni da traumi. In altre parole, gli antiossidanti non prevengono strappi, stiramenti, infiammazioni, contratture, ma quel lento logorio invisibile. La vitamina E è quella che svolge il ruolo più importante, assieme al selenio. L’importanza fondamentale della vitamina E risiede nel fatto che né il selenio né la vitamina C riescono a supplire a sue eventuali carenze. L’attività di altri antiossidanti potenzia, ma non sostituisce, l’azione principale svolta dalla vitamina E. Naturalmente, anche in questo caso, anche se vitamina E, A e C non presentano particolare tossicità, si devono tenere ben presenti le abitudini dietetiche e devono essere evidenziate eventuali carenze, prima di assumere integrazioni, in particolare si deve fare attenzione nei riguardi della vitamina E, l’ antiossidante più utilizzato dal nostro organismo. L’atleta, rispetto al non atleta, ha sicuramente un fabbisogno aumentato di queste sostanze, anche se è più bravo a smaltire, neutralizzare i radicali liberi prodotti in abbondanza durante l’attività fisica. Paradossalmente molti antiossidanti assunti a grandi dosi possono causare l’effetto opposto, ovvero essere essi stessi fonte di produzione di radicali liberi.

Come funzionano
Un normale atomo di ossigeno ha quattro paia di elettroni. Il metabolismo naturale del corpo può sottrarre un elettrone all’atomo, che diventa, quindi, un radicale libero che cerca di rimpiazzare l’elettrone perso attaccando altre molecole. Quando un radicale libero, si appropria di un elettrone da una molecola, si forma un nuovo radicale libero, creando, in questa maniera, una reazione a catena. Il furto a catena degli elettroni corrode la membrana cellulare, portando alla disintegrazione della cellula stessa, aprendo la porta a tumori e ad altre malattie. Grazie alla loro struttura molecolare, gli antiossidanti possono fornire elettroni ai radicali liberi, senza per questo diventare pericolosi, fermando la pericolosa reazione a catena.

venerdì 11 dicembre 2009

Chi mangia in fretta ingrassa di più

Masticare con calma aiuta a non mangiare troppo:il merito è degli ormoni della sazietà


Chi va piano va sano e va lontano. Adattato alla dieta, il vecchio detto potrebbe suonare più o meno così: chi mastica piano resta sano e mangia poco. Che mangiare con calma sia meglio di trangugiare un pasto intero in cinque minuti non è precisamente una novità, ma oggi c'è uno studio, di prossima pubblicazione sulle pagine di Journal of Clinical Endocrinology and Metabolism, che mette il «sigillo» scientifico a tutto questo con un esperimento a cui molti si sarebbero forse sottoposti assai volentieri.

GELATO – Il cibo-test usato dagli autori, un gruppo di ricercatori del Laiko General Hospital di Atene, in Grecia, è stato infatti un ghiotto gelato da 300 grammi. Ai volontari sono stati dati ben trenta minuti per gustarselo: alcuni lo hanno spazzolato in pochi minuti, altri si son presi tutto il tempo per mangiarlo. I ricercatori hanno prelevato campioni di sangue prima del gelato e poi ogni 30 minuti, fino a tre ore e mezzo dopo l'inizio del pasto; nel sangue sono stati dosati glucosio, insulina, grassi e i livelli di due ormoni, il peptide YY e il peptide simile al glucagone. Questi ormoni, che vengono prodotti dall'intestino, agiscono sul cervello inducendo sazietà e segnalando che il pasto deve interrompersi; ebbene, chi aveva impiegato più tempo a mangiare il gelato aveva mediamente livelli più elevati nel sangue di peptide YY e peptide simile al glucagone, e non a caso riferiva di sentirsi più sazio.

PROVE – «Molti di noi hanno sentito dire che mangiare veloce porta a esagerare e perfino a diventare obesi; già altri studi di osservazione hanno confermato questa idea – dice Alexander Kokkinos, il responsabile della ricerca –. I nostri dati offrono una spiegazione per tutto ciò: la velocità a cui si mangia, infatti, incide non poco sulla sintesi di ormoni fondamentali per segnalare al cervello la sazietà e quindi dare lo stop al pasto». Se non si dà il tempo agli ormoni di essere prodotti e arrivare al cervello (e occorrono almeno dieci, venti minuti dall'inizio del pasto perché succeda), non riceviamo il segnale di stop: chi spazzola un tavolo prima che si inneschi la comunicazione stomaco-cervello è destinato perciò a esagerare e mangiare qualcosa di troppo. Non a caso esistono studi che rivelano come la carenza dei due ormoni intestinali porti a stra-mangiare. «Quando diciamo ai bambini di non abbuffarsi come lupi abbiamo più che ragione: proprio ai più piccoli è fondamentale insegnare l'importanza di masticare con calma, prendendosi tutto il tempo necessario per gustare il pasto – considera il ricercatore –. Il problema ovviamente riguarda anche gli adulti: molti oggi, pressati dagli orari di lavoro e da una vita frenetica, finiscono per trangugiare in fretta i pasti. E spesso proprio per questo mangiano più del necessario: è ora di riprendersi il tempo adeguato per consumare pranzo e cena, dando la possibilità al nostro organismo di sentire la sazietà».

mercoledì 2 dicembre 2009

Mangiare meno per vivere di più e meglio

Bastano 100 calorie in meno al giorno per ridurre del 10 per cento il rischio di disabilità a tre anni




MILANO - Non si allacciano più bene le scarpe. Salire le scale di casa diventa un’impresa, camminare fino al negozio per far la spesa uno sforzo titanico. Sono alcun delle tante disabilità che pian piano si insinuano nella vita degli anziani; ora uno studio tutto italiano presentato al congresso della Società Italiana di Gerontologia e Geriatra dimostra, per la prima volta al mondo sull’uomo, che basta mangiare meno per prevenire questi acciacchi. Per vivere meglio, insomma, e magari anche più a lungo.

CHIANTI – I dati sono gli ultimi risultati di una ricerca che è un po’ il nostro «Framingham Study» in materia di anziani, lo studio InCHIANTI come nel famoso studio americano, che segue dal 1948 gli abitanti di una cittadina del Massachusetts registrandone vita, morte e miracoli, così alle porte di Firenze un gruppo di ricercatori sta seguendo dal 1998 circa 1.200 anziani che vivono in due paesini del Chianti fiorentino. Arzilli vecchietti che, sarà merito della vita in campagna o dell’olio buono, sono spesso in buona salute e stanno indicando la strada per arrivare a una vecchiaia serena e senza acciacchi. Ultimo dato, appunto, la dimostrazione che basta mangiare meno per abbassare il rischio di sviluppare disabilità piccole o grandi: «Per la ricerca, in uscita su Age and Ageing, abbiamo analizzato i dati di 900 dei nostri anziani, per i quali avevamo informazioni nutrizionali complete – racconta Luigi Ferrucci, coordinatore dalla prima ora dello studio InCHIANTI (tuttora in corsa sotto l'egida della Azienda Sanitaria di Firenze) e oggi “emigrato” al National Institute of Aging di Bethesda, negli Stati Uniti –. Abbiamo anche indagato patologie concomitanti, dal diabete all’ipertensione, e anche consumo di alcol e abitudine al fumo; poi, all’inizio dello studio e dopo tre anni, abbiamo sottoposto gli anziani a una valutazione delle disabilità funzionali nella cura di sé e nelle attività quotidiane più varie».

DIETA – Risultato, chi mangiava di meno rischiava anche meno di ritrovarsi con qualche difficoltà di troppo: per ogni cento calorie in più infatti, cresceva del 10 per cento la probabilità di nuove disabilità funzionali nel giro di tre anni. Essere parchi a tavola aiuta a vivere meglio, quindi, e possibilmente di più: «Questi dati dimostrano per la prima volta nell’uomo un effetto della restrizione calorica su parametri importanti per la longevità – commenta Niccolò Marchionni, presidente della SIGG –. Tanti studi sull’animale ci hanno dimostrato che ridurre le calorie dei pasti allunga la vita: l’ultima ricerca, pubblicata in estate su Science, lo ha provato su una specie molto simile a noi, il macaco. Basta guardare le foto degli animali coinvolti, che sono stati seguiti dal 1989 a oggi: chi negli anni ha mangiato meno, oltre a vivere più a lungo e allontanare pure tumori, malattie cardiovascolari o diabete, fisicamente pare il nipote dei macachi non sottoposti a restrizione calorica». In effetti è vero: da una parte sguardi spenti, portamento curvo, pelliccia spelacchiata, dall’altra il ritratto della buona salute. Sull’uomo può quindi succedere lo stesso? «I dati di InCHIANTI sembrano suggerire di sì – dice Marchionni –. Tra l’altro si tratta di dati raccolti su persone non selezionate per uno studio sperimentale: il vantaggio di InCHIANTI è che sta seguendo anziani normali, di tutti i tipi, per cui le conclusioni hanno un significato reale, vero per ciascuno di noi».

GENI – Il Nobel per la medicina 2009 è stato assegnato a chi ha svelato i segreti dei telomeri, quei «cappucci» che stanno sulla parte finale dei cromosomi e si accorciano man mano che invecchiamo. In questi pezzettini di DNA molti vedono la chiave genetica del nostro destino di longevità: mangiar meno può in qualche modo ribaltare la nostra aspettativa di vita, in barba a quel che è scritto nei geni? «I geni rendono conto di circa il 30 per cento della possibile durata della nostra esistenza – dice Marchionni –. Il resto lo fa lo stile di vita, che può condizionare in meglio o in peggio la nostra longevità: fare attività fisica regolare, mangiare poco scegliendo cibi sani ed equilibrati aiuta di certo a mantenerci giovani e in salute più a lungo».

lunedì 30 novembre 2009

L'influenza A e il business delle uova

MILANO - Dietro l’influenza A non c’è solo il business dei vaccini e dei farmaci, ma anche quello delle galline e delle uova. Sì, perché il virus che serve per fabbricare il vaccino cresce sulle uova di pollo. Non semplici uova da supermercato, ma uova «embrionate», cioè fecondate e già sulla strada per dare origine a un pulcino. Per ottenere una dose di vaccino ci vuole un uovo: 24 milioni di dosi per la prima tranche di vaccinazione degli italiani, 24 milioni di uova. I conti li ha fatti un gruppo di giornalisti che ha firmato con il nome «Progetto Wacthdog» il libro «Nuova influenza, quello che non ci dicono», in uscita per Terre di Mezzo Editore. Proprio come «cani da guardia» gli autori hanno analizzato che cosa sta dietro il vaccino antinfluenzale, hanno fatto i conti in tasca alle industrie, hanno analizzato le prove dell’efficacia e i rischi della vaccinazione e degli antivirali, hanno monitorato le cronache di giornali e Tv che hanno parlato di pandemia in questi ultimi mesi, hanno registrato gli allarmi delle autorità sanitarie. E hanno scoperto l’affare delle uova.

NON UOVA QUALSIASI - A Rosia, vicino a Siena, dove si trova lo stabilimento della multinazionale svizzera Novartis che produce il vaccino, arrivano, da quest’estate, 150 mila uova al giorno. Un uovo da vaccino vale più del doppio di quello che finisce sulle nostre tavole: almeno venti centesimi. Proprio perché deve essere fecondato, non bastano le galline: ci vuole anche il gallo. Per questo il procedimento è più complesso. Un tempo le galline predilette dall’industria farmaceutica, si legge nel libro, erano le livornesi: piumaggio bianco e uova bianche, perché così è più facile vedere attraverso il guscio se si è formato l’embrione. Adesso però si usano anche quelle dal guscio rosso dal momento che le macchine più moderne riescono lo stesso a vedere all’interno. A fornire le uova alla Novartis è un allevamento di Faenza della famiglia Morini che fa quattro consegne alla settimana. Una volta arrivate a destinazione, le uova vengono inoculate con il virus fra il nono e l’undicesimo giorno di vita, poi vengono incubate per tre giorni e infine vengono aperte: si estrae il liquido e i virus vengono isolati, purificati e frammentati per ottenere quelle proteine che servono per fabbricare il vaccino. Ecco perché chi è allergico alle proteine dell’uovo va vaccinato in ambienti protetti che possano cioè far fronte a eventuali, anche se rare, reazioni avverse. Il Morini Group è nel business delle uova da vaccino dal 1996 e fin dal 2005 aveva messo a punto con le industrie e con il governo un piano pandemico. Ma anche per quanto riguarda il contratto per le uova, come per quello dei vaccini, l’entità rimane sconosciuta. Si può invece immaginare che quest’anno gli allevatori delle uova da vaccino prolungheranno la stagione di produzione. E c’è anche chi è certo che si troveranno meno uova e polli sul mercato e che i loro prezzi saliranno.

martedì 24 novembre 2009

Il corpo degenera a partire dai 45 anni

Il corpo degenera a partire dai 45 anni

MILANO - Chi, dopo aver superato spensieratamente i trenta, e aver scavalcato con baldanza i quaranta, pensava di aver fatto la sua parte nello sconfiggere la paura di invecchiare, ora dovrà di nuovo prepararsi a un nuovo ostacolo, probabilmente il più insidioso: i 45 anni. È quella la soglia critica dopo la quale accelera il declino fisico, in particolare la forma cardiovascolare.

LO STUDIO - La cattiva notizia per molti «splendidi quarantenni» arriva da uno studio guidato dal professore Andrew S. Jackson della University of Houston – e appena pubblicato sulla rivista Archives of Internal Medicine – che ha analizzato tra il 1974 e il 2006 lo stato di salute e la forma fisica di migliaia di volontari, tra i 20 e i 96 anni. I partecipanti si sono sottoposti nel tempo a numerosi check-up riguardanti la salute, le abitudini alimentari, l’esercizio fisico; inoltre sono stati sottoposti a controlli cardiovascolari sotto sforzo. Una volta raccolti i dati, i modelli statistici hanno mostrato che i livelli di fitness diminuiscono sì nel tempo, ma non in modo lineare: dopo i 45 anni il declino della forma cardiovascolare subisce infatti un’accelerazione. E questo vale soprattutto per gli uomini.

STILE DI VITA - Ovviamente restano le differenze in base al diverso stile di vita. I risultati dello studio evidenziano anche che restare attivi, con un indice di massa corporeo normale e non fumatori permette di mantenere nel tempo una migliore forma fisica. «Questi dati indicano la necessità che i medici raccomandino ai pazienti di mantenere il peso nella norma, di fare attività fisica regolare e di astenersi dal fumo», conclude lo studio, confermando una serie di prescrizioni ormai consolidate dalla letteratura scientifica. In quanto alla paura di invecchiare: per quella c’è sempre tempo.

martedì 17 novembre 2009

Per avere muscoli d'acciaio non occorre esagerare con la carne

MILANO - Si dice che Milone di Crotone, il leggendario lottatore che nel sesto secolo a.C. vinse cinque Olimpiadi di seguito, mangiasse ben nove chili di carne tutti i giorni per avere muscoli d'acciaio. Oggi nessuno si spinge a tanto, ma l'idea che mangiare tanta carne o comunque seguire una dieta ad alto contenuto proteico sia quasi obbligatorio per chi vuole eccellere nel body building, nel calcio o in qualsiasi sport che richieda un bel po' di muscoli è dura a morire. Si tratta però di un mito senza troppi fondamenti scientifici, stando ai risultati di una ricerca statunitense pubblicata dal Journal of the American Dietetic Association.

SINTESI PROTEINE – Gli autori, un gruppo di ricercatori dell'università del Texas, sostengono che bisognerebbe piuttosto mangiare non molte proteine (bastano 30 grammi, forse perfino meno), ma a ogni pasto. La convinzione arriva da uno studio rigoroso, condotto per rispondere a una semplice domanda: «Sappiamo che con 30 grammi di proteine, che corrispondono approssimativamente a un etto di pollo, di pesce o di carne di manzo magra, aumentano del 50 per cento la sintesi di proteine muscolari in giovani adulti e negli anziani: ci siamo chiesti se triplicando la dose triplichi di conseguenza anche la capacità di “costruire i muscoli”», spiega Douglas Paddon-Jones, il responsabile dello studio. Per ottenere la risposta, Paddon-Jones ha chiesto a 17 giovani e 17 anziani di mangiare, in tempi diversi, porzioni da un etto o tre etti di carne magra di manzo. Poi, il ricercatore ha preso campioni di sangue ed eseguito micro-biopsie muscolari per determinare il tasso di sintesi proteica dopo ciascun pasto. C'è voluto poco per accorgersi che il pezzo di carne più grosso portava alla stessa, identica quota di proteine muscolari: come se, in altri termini, già introducendo 30 grammi di proteine si raggiungesse un tetto massimo che non è possibile sfondare. Inutile rimpinzarsi di carne, insomma.

PASTI – Il dato, secondo Paddon-Jones, ha importanti implicazioni che potrebbero aiutarci a distribuire meglio il consumo di proteine durante il giorno: se una «bomba» proteica non fa sbocciare all'istante fibre muscolari a iosa, meglio garantirsi una quota minima ma costante di proteine, per avere una sintesi altrettanto regolare di muscolo. Il fatto non è così banale come sembra, visto che molti di noi non mangiano affatto così: la giornata-tipo che va per la maggiore prevede poche proteine a colazione (per chi la fa), un po' di più a pranzo, la dose più elevata a cena, quando finalmente ci si può sedere a tavola con calma. «In sostanza durante il giorno non introduciamo proteine a sufficienza per costruire muscoli in maniera efficace, mentre alla sera ne consumiamo più di quante ne riusciamo ad usare. E gran parte di questo eccesso proteico finisce per diventare glucosio o grasso», osserva il ricercatore statunitense. Che suggerisce perciò di spostare un po' delle proteine della sera in altri momenti della giornata, per riequilibrarne il consumo e far sì che la sintesi di proteine muscolari sia davvero efficace: non occorre insomma fare scorpacciate di carne, ma essere un po' più furbi nel distribuire l'introito proteico durante la giornata: «A colazione si possono aggiungere proteine di alta qualità con un bicchiere di latte, uno yogurt o una manciata di frutta a guscio – consiglia Paddon-Jones –. A pranzo, cerchiamo di mangiare 30 grammi di proteine accompagnando l'insalata con un uovo o un po' di tonno; alla sera, riduciamo la carne mantenendoci su porzioni di circa un etto. Così facendo, il nostro organismo sarà impegnato a sintetizzare proteine muscolari in modo efficace durante tutto l'arco della giornata».

sabato 14 novembre 2009

LA NUOVA PIRAMIDE ALIMENTARE

MILANO - Quella standard con le figurine dei cibi la conosciamo bene, anche se di tanto in tanto è stata modificata per diventare, ad esempio, più «regionale» e includere alimenti tipici di alcune zone d'Italia. Oggi ne viene proposta una tutta diversa, senza disegni, ma con indicazioni assai pratiche. «La nuova piramide alimentare si basa sui principi fondamentali della dieta mediterranea ma non indica i consumi, bensì educa a comporre i pasti nel modo giusto», così la definisce Carlo Cannella, presidente dell'Istituto Nazionale di Ricerca per gli Alimenti e la Nutrizione.

PIRAMIDE – La nuova piramide è stata presentata di recente a Parma a conclusione della III Conferenza Internazionale del Centro Interuniversitario Internazionale di Studi sulle Culture Alimentari Mediterranee (CIISCAM) e rivolta a tutta la popolazione adulta, dai 18 ai 65 anni. Alla base, a sorpresa, non ci sono figurine di cereali, insalata o frutta ma poche parolette, insolite se si hanno in mente le piramidi alimentari classiche: attività fisica, convivialità, stagionalità, prodotti locali. «Queste parole, che esortano a uno stile di vita salutare oltre che a un'alimentazione sana, indicano che lo scopo della nostra piramide è soprattutto educativo: vogliamo far capire agli italiani che devono muoversi, vivere con piacere il cibo, scegliere alimenti di stagione che provengono dalla zona dove si abita», spiega Cannella. Queste, insomma, sono le regole che dobbiamo tener presenti ancor prima di sederci a tavola. Poi, l'altro caposaldo alla base della piramide: «Bere acqua, tanta acqua. Evitando le bevande zuccherate», dice Cannella. Quindi si sale, passando ai cibi veri e propri: al primo livello ci sono cereali (preferibilmente integrali), frutta e verdura che devono entrare a far parte di tutti i pasti della settimana. Questi possiamo, anzi dobbiamo consumarli ogni volta che ci sediamo a tavola; salendo ancora, si trovano gli alimenti che vanno introdotti ogni giorno ma non necessariamente in tutti i pasti, ovvero il latte e i latticini, l'olio d'oliva, la frutta a guscio e le spezie per insaporire i cibi, utilissime per ridurre il sale.

IN CIMA – Salendo ancora, ecco i cibi che si devono introdurre durante l'arco della settimana, variando di volta in volta la composizione dei pasti: due-quattro porzioni di uova, due o più porzioni di pesce e legumi, una o due porzioni di pollame. Ancora più su, proprio in cima alla piramide, gli alimenti con cui è bene non esagerare: una porzione di salumi, due porzioni (o meno) di carne rossa e di dolci. «Sommando assieme tutte le porzioni indicate nella piramide si arriva al totale dei 14 pasti settimanali – spiega Cannella –. Questo strumento, perciò, è utile e innovativo perché non dà soltanto indicazioni “astratte” sulla qualità dei cibi da introdurre nella dieta. È infatti la prima volta che la piramide viene strutturata con gli alimenti che compongono un pasto principale alla base e, via via a salire, gli altri cibi necessari a completarlo distribuiti a seconda che la frequenza di consumo consigliata sia giornaliera o settimanale».

TRADIZIONE E MODERNITÀ – La piramide cita alimenti come il couscous, che non sono tipici della tradizione italiana (almeno, non al di fuori della Sicilia), e l'invito a bere vino con moderazione nel rispetto delle tradizioni sociali e religiose. C'è quindi un'attenzione precisa a includere le novità che necessariamente derivano dal melting pot che si sta creando anche nel nostro Paese: «La dieta mediterranea proposta con questa nuova piramide è rivisitata all'insegna della modernità e del benessere, senza però trascurare le tradizioni culturali, religiose e le diverse identità nazionali – osserva il nutrizionista –. Nelle nostre intenzioni questa è una sorta di “macro-struttura” che può adattarsi alle esigenze attuali di tutte le popolazioni mediterranee, nel rispetto delle varianti locali diverse da Paese a Paese e spesso da regione a regione». Non manca l'accenno polemico: «La piramide, in cui non c'è neppure una figura, è anche una risposta a quanti, negli Stati Uniti, cercano di appropriarsi della dieta mediterranea in vario modo. La Oldways Foundation, ad esempio, ha creato il marchio “cibo mediterraneo” e lo appioppa a qualsiasi cosa, perfino agli avocado che di certo non sono un nostro alimento tipico. Quello però è marketing, noi vogliamo solo educare la gente a capire che cosa deve mettere assieme, ogni giorno, per costruire una dieta bilanciata e sana», conclude Cannella.

mercoledì 11 novembre 2009

Curcuma e cancro: non solo prevenzione di Attilio Speciani



Si è appena concluso a Washington il Meeting dell'American Institute of Cancer Research, dove i massimi esperti mondiali hanno discusso della relazione tra alimentazione, attività fisica e prevenzione e cura delle forme tumorali. Tra le numerose novità la sempre maggiore importanza dell'uso di alcune spezie, presenti da secoli nella tradizione alimentare, che la scienza sta documentando come attivissime nella difesa anticancro. In particolare la Curcuma si segnala per una ricchezza e una intensità di azione che la mettono alla pari dei più potenti farmaci antineoplastici.

martedì 27 ottobre 2009

La soia «rigermoglia» nella dieta?

MILANO - Contiene tocoferoli antiossidanti ed è per questo che fa bene. La soia dovrebbe far parte più spesso della nostra dieta: lo sostiene una ricerca canadese che per la prima volta sull'Agronomy Journal ha fatto il punto sui contenuti di tocoferoli di questo legume, sottolineando come le buone quantità presenti nella pianta possano essere molto utili per la prevenzione di malattie come i tumori o le patologie cardiovascolari.

TOCOFEROLI – Esistono quattro forme di tocoferoli, alfa, beta, gamma e delta; il gamma è quello più abbondante nella soia, spiegano i ricercatori, mentre l'alfa è il più efficace in termini di attività antiossidante. Tutti, comunque, sono considerati utili per la prevenzione: Philippe Seguin, che ha condotto la ricerca, ha cercato di valutare le differenze in tocoferoli in diversi genotipi di soia cresciuti in vari ambienti. L'utilità di uno studio simile, il primo nel suo genere, è determinare le concentrazioni di antiossidanti che è possibile trovare nella soia e quali genotipi della pianta siano più utili per ottenere un prodotto «funzionale», ovvero arricchito in antiossidanti e particolarmente utile, quindi, per la nostra salute; inoltre, studiando come cambiano i contenuti di tocoferoli in relazione all'ambiente di crescita delle piante è possibile capire non solo quali genotipi coltivare, ma anche come farlo al meglio. I ricercatori hanno puntato soprattutto a trovare piante ricche di alfa-tocoferolo che fosse particolarmente stabile, e Seguin riferisce: «Abbiamo verificato che le condizioni ambientali non influenzano molto i contenuti di antiossidanti, né ci sono caratteristiche del seme che incidono in modo specifico sui tocoferoli. Che, tuttavia, variano molto a seconda del genotipo prescelto: questo significa che è possibile selezionare e coltivare soia molto ricca di tocoferoli, un vero e proprio "cibo funzionale” con benefici notevoli sulla nostra salute».

SOIA – Pare che altri elementi influenzino i contenuti di antiossidanti, ad esempio il momento della semina; in attesa che la ricerca offra la «ricetta» per ottenere un super-soia ancora più efficace per prevenire e combattere tante malattie, è utile tuttavia introdurre nella dieta questo legume, che anche «al naturale» è ricco di sostanze benefiche. «Come tutti gli alimenti di origine vegetale, anche la soia è fonte di antiossidanti: non solo tocoferoli, quindi, ma una vasta serie di molecole molto diverse tra loro, che hanno in comune la proprietà di difendere il nostro organismo dal danno ossidativo, ossia dall'azione negativa dei radicali liberi – interviene Alessandra Bordoni del Centro Ricerche sulla Nutrizione del Dipartimento di Biochimica dell'università di Bologna –. La famiglia dei tocoferoli fa parte degli antiossidanti di origine alimentare. L'alfa-tocoferolo, ovvero la vitamina E, si trova soprattutto nei semi oleaginosi: perciò ne sono un'ottima fonte gli oli di semi spremuti a freddo, l'olio extravergine d'oliva, ma anche tutti i semi interi crudi, le noci e la soia. Che contiene anche antiossidanti della categoria dei polifenoli e soprattutto un'elevata quantità di isoflavoni: sono noti perché hanno un'attività simile a quella degli estrogeni femminili, ma hanno anche un'azione antiossidante».

CONSIGLI – Viste le proprietà della soia, è il caso davvero di aumentarne il consumo? «Mangiare soia in quantità è utile se serve aumentare l'introito di isoflavoni, che sono poco presenti negli altri alimenti, e non tanto se si cerca di garantirsi quantità adeguate di tocoferoli – risponde Bordoni –. Questo perché in media nella popolazione italiana l'introduzione di vitamina E è corretta grazie al buon consumo di olio extravergine di oliva, che ne è una fonte importantissima e che fa parte della nostra tradizione gastronomica». In sostanza, non è strettamente necessario cercare la vitamina E nella soia: può essere più semplice prenderla altrove, da cibi che abitualmente consumiamo. «L'importante è che l'alimentazione sia corretta e apporti una buona quantità di antiossidanti – riprende l'esperta –. Questo significa seguire una dieta ricca di prodotti di origine vegetale (5 volte al giorno, pari a 500 grammi di frutta e verdura) cercando di alternarne il tipo, visto che ogni alimento ha un suo profilo tipico di molecole antiossidanti». Non bisogna “fissarsi” su nessun cibo, insomma, ma cambiare spesso quello che si mette in tavola. Anche perché, in fondo, se la dieta è varia non ci si annoia e il gusto ci guadagna.

Fermenti lattici per prevenire l'obesità e il diabete

MILANO - Uno yogurt al giorno toglie obesità e diabete di torno. Così si potrebbe riadattare il vecchio detto alla luce di quanto si è discusso a Riccione, al congresso Panorama Diabete della Società Italiana di Diabetologia: secondo gli esperti infatti non c’è alcun dubbio, la flora intestinale conta, eccome, nel decidere il nostro peso sulla bilancia e pure nel proteggerci o meno dal diabete.

STUDI – La convinzione deriva dalle ricerche più recenti: una, pubblicata poco tempo fa da ricercatori finlandesi, ha scoperto che i batteri che stazionano nell’intestino fin dalla prima infanzia condizionano il peso dei bambini. Marko Kalliomaki, dell’università di Turku in Finlandia, ha studiato 49 bimbi valutandone la flora batterica intestinale a un anno di vita; dopo 6 anni ha rivisto i piccoli e ha scoperto che quelli in cui abbondavano i probiotici (i famosi bifidobatteri che si trovano anche nello yogurt) pesavano in media 4 chili di meno rispetto ai coetanei che da neonati avevano l’intestino più ricco di batteri «cattivi», come lo stafilococco. Un dato che si somma ad altri e fa dire ai diabetologi che la flora intestinale «buona», cioè i probiotici o fermenti lattici, aiuta a prevenire l’obesità e il diabete, a questa strettamente correlato. «Credevamo che la flora intestinale avesse effetto solo a livello locale, proteggendo il colon da tumori e malattie infiammatorie croniche: non è così – spiega Rosalba Giacco, relatrice alla sessione del convegno su alimentazione e diabete e ricercatrice all’Istituto di Scienze dell’Alimentazione del CNR di Avellino –. I fermenti lattici infatti producono acido acetico, propionico e butirrico: i primi due vanno nel sangue e da qui nel fegato, dove regolano la produzione epatica di glucosio e grassi come colesterolo e trigliceridi; il butirrico invece resta nell’intestino a “nutrire” le cellule dell’epitelio».

PROBIOTICI – Quando la flora «buona» scarseggia e prendono il sopravvento altri batteri, allo stesso modo gli effetti si fanno sentire anche altrove: «I batteri cattivi producono tossine che favoriscono l’infiammazione e l’aterosclerosi, riducono l’attività dell’insulina e promuovono la sintesi di colesterolo e trigliceridi», dice Giacco. Così non stupisce scoprire che negli obesi la flora intestinale è molto diversa rispetto a quella dei magri e che perdendo peso anche i batteri nell’intestino si modificano. «I batteri intestinali buoni regolano l’assorbimento dell’energia dagli alimenti: riducono del 2 per cento l’introito energetico, e ciò nell’arco di anni può fare la differenza fra essere normopeso o sovrappeso – continua la ricercatrice –. Inoltre, i probiotici hanno anche effetto stimolante su ormoni intestinali che portano a un aumento del senso di sazietà, e quindi a mangiare di meno».

PREBIOTICI – I fermenti lattici si possono introdurre da soli attraverso yogurt o simili, ma è utile anche favorirne lo sviluppo mangiando cibi che sono «graditi» ai batteri buoni, i cosiddetti prebiotici: per lo più si tratta di fibre provenienti da frutta e verdura. «Le fibre favoriscono la crescita dei batteri buoni al posto dei cattivi, che invece proliferano se si mangia molta carne o altri prodotti di origine animale – spiega Giacco –. Purtroppo anche in Italia abbiamo un po’ perso le sane abitudini della dieta mediterranea e consumiamo meno fibre rispetto al passato: ora siamo più o meno allineati ai consumi europei, che variano fra i 3 e gli 11 grammi di fibre al giorno. Poche: è bene aumentare l’introito di frutta, verdura, cereali, pasta e pane integrali, oltre che di prodotti come lo yogurt che contengono fermenti lattici. Serve a prevenire l’obesità e quindi il diabete, ma anche tumori, malattie cardiovascolari e molte malattie croniche intestinali», conclude l’esperta.

I cibi che conservano meglio l'udito

MILANO - Uomini, fate scorta di folati. Proprio quell'acido folico che è tanto utile per le donne in gravidanza serve infatti a ridurre il rischio di sordità, che negli uomini è più elevato: lo dimostra una ricerca presentata all'ultimo congresso dell'American Academy of Otolaryngology-Head and Neck Surgery Foundation. L’acido folico si trova in abbondanza in alcuni alimenti come le verdure a foglia verde (spinaci, broccoli, asparagi, lattuga), le arance (e il succo di arancia dal concentrato), i legumi, i cereali, frutta come limoni, kiwi e fragole, e nel fegato.

STUDIO – I dati sono stati raccolti su poco meno di 3.600 uomini con una perdita più o meno accentuata dell'udito, le cui abitudini sono state passate al setaccio soprattutto per capire l'introito di vitamine, antiossidanti e altri micronutrienti: la loro dieta è stata valutata regolarmente nel tempo perché i partecipanti provenivano dall'Health Professionals Follow-Up Study, che ha seguito dal 1986 al 2004 oltre 50 mila uomini sottoponendo loro ogni anno anche questionari specifici per valutare l'alimentazione. I risultati dell'analisi svelano che non ci sarebbe alcun effetto protettivo sull'orecchio da parte di antiossidanti come la vitamina C, la vitamina E o il betacarotene: la perdita dell'udito, in questo campione, è stata cioè indipendente dalla quantità di antiossidanti introdotti con la dieta. Invece, gli over 60 che consumavano molti cibi ricchi di folati o prendevano supplementi a base di acido folico (o vitamina B9) registravano una riduzione del 20 per cento del rischio di sordità più o meno consistente.

sabato 24 ottobre 2009

Farmaci: anti-sepsi rallenta

ROMA - Una molecola già in uso contro le setticemie ha mostrato la capacità di rallentare , nei topi, la progressione della Sclerosi laterale amiotrofica (SLA) o morbo di Lou Gehrig, e quindi di migliorarne il decorso. Le cavie animali trattate con questa molecola, vivono il 25% in più. Lo indica uno studio condotto presso le Università di Rochester e San Diego e pubblicato online sul Journal of Clinical Investigation.

L'ESPERIMENTO - Guidati da Berislav Zlokovic, i ricercatori hanno testato la «proteina C attivata» (APC) su topi cui è stata procurata una forma aggressiva di sclerosi laterale attraverso la mutazione del gene SOD1, fenomeno osservato in alcuni casi di SLA. La SLA è una malattia neurodegenerativa che compromette progressivamente i neuroni che controllano i movimenti. La malattia è causata da tossicità neuronale e infatti sono risultati implicati difetti genetici a carico di geni che servono a detossificare le cellule dai radicali liberi; SOD1 è tra questi. La proteina C attivata ha proprietà antinfiammatorie notevoli e riesce a passare la barriera ematoencefalica (che protegge i neuroni da sostenze tossiche potrebbero eventualmente arrivare al cervello attraverso il sangue). La proteina in questione, spiegano gli autori, ha proprietà neuroprotettive e rallenta dunque «l'avvelenamento» dei neuroni tipico della malattia. Proprio perchè APC è già in uso clinico, entro cinque anni, concludono, composti analoghi di APC potrebbero entrare in sperimentazione clinica su pazienti con Sla.

venerdì 16 ottobre 2009

Vino: un piccolo aiuto contro il cancro

In alcuni casi il vino può avere effetti positivi, se assunto con moderazione, infatti ne basta un bicchiere per aiutare a contrastare gli effetti negativi della radioterapia. A scoprirlo un team di ricercatori italiani dell’università Cattolica di Campobasso, che con il loro studio hanno guadagnato le pagine dell’International Journal of Radiation Oncology Biology.
Le radiazioni usate per combattere il cancro colpiscono, come è noto, anche i tessuti sani vicini, primo fra tutti la pelle che devono attraversare, provocando molto spesso effetti collaterali anche rilevanti. È in questo campo che il vino rivela un suo lato nuovo e inatteso: proteggere quei tessuti dalle radiazioni, senza peraltro diminuire l’efficacia della radioterapia nel danneggiare le cellule cancerose. A favorire questo effetto benefico non sarebbe l’alcol, ma altri componenti contenuti nel vino, primi fra tutti gli antiossidanti della categoria dei polifenoli.
La ricerca, condotta dall’unità operativa di Radioterapia e terapie palliative del dipartimento di oncologia e dai laboratori di ricerca dell’università Cattolica di Campobasso, ha preso in esame 348 donne malate di tumore al seno e sottoposte a radioterapia nello stesso centro molisano da febbraio 2003 a giugno 2007. Oltre alle normali informazioni cliniche necessarie per l’inizio della cura, ciascuna paziente aveva fornito informazioni sul suo stile alimentare e sulle sue abitudini di vita, incluso il consumo di bevande alcoliche e specificamente di vino.
Ciò che i ricercatori hanno esaminato è il danno che le radiazioni potevano provocare nella pelle del seno, un tipo di lesione misurato con una scala di gravità crescente. I risultati mostrano come le donne che avevano l’abitudine di bere moderate quantità di vino presentavano lesioni della pelle significativamente inferiori rispetto a quelle astemie.
«I nostri dati - spiega Alessio Morganti, direttore dell’unità di Radioterapia - mostrano che il consumo giornaliero moderato di vino presenta un rischio di danni cutanei mediamente inferiore del 75% rispetto a una paziente astemia. Questo lavoro va nella stessa direzione di alcuni studi precedenti, condotti in altri laboratori internazionali, che avevano mostrato come le componenti non alcoliche del vino, soprattutto i polifenoli, abbiano la capacità di proteggere il Dna dalle radiazioni. Naturalmente c’è ancora molto lavoro da fare per scandagliare nei dettagli questi effetti positivi del vino, ad esempio studiare se c’è differenza tra bianco e rosso».
«Un punto cruciale - prosegue l’esperto - sarà confermare direttamente il ruolo della componente non alcolica del vino, che potrebbe aprire la strada a un uso terapeutico di quegli antiossidanti. In ogni caso la possibilità che una particolare dieta o abitudine alimentare possa ridurre gli effetti collaterali della radioterapia è un’acquisizione decisamente imprevista e innovativa».
«Moderazione - ci tiene a sottolineare Giovanni de Gaetano, direttore dei Laboratori di ricerca - è la parola chiave quando abbiamo a che fare con bevande alcoliche. Nel caso delle donne sottoposte a radioterapia per il tumore al seno stiamo parlando di un bicchiere di vino al giorno, quindi una dose molto bassa, compatibile con le abitudini mediterranee. Naturalmente non sarebbe corretto - precisa - consigliare a una paziente astemia di cominciare a consumare vino prima di un trattamento radioterapico, ma emerge ancora una volta la validità della dieta mediterranea come stile di vita salutare».