MILANO - Contiene tocoferoli antiossidanti ed è per questo che fa bene. La soia dovrebbe far parte più spesso della nostra dieta: lo sostiene una ricerca canadese che per la prima volta sull'Agronomy Journal ha fatto il punto sui contenuti di tocoferoli di questo legume, sottolineando come le buone quantità presenti nella pianta possano essere molto utili per la prevenzione di malattie come i tumori o le patologie cardiovascolari.
TOCOFEROLI – Esistono quattro forme di tocoferoli, alfa, beta, gamma e delta; il gamma è quello più abbondante nella soia, spiegano i ricercatori, mentre l'alfa è il più efficace in termini di attività antiossidante. Tutti, comunque, sono considerati utili per la prevenzione: Philippe Seguin, che ha condotto la ricerca, ha cercato di valutare le differenze in tocoferoli in diversi genotipi di soia cresciuti in vari ambienti. L'utilità di uno studio simile, il primo nel suo genere, è determinare le concentrazioni di antiossidanti che è possibile trovare nella soia e quali genotipi della pianta siano più utili per ottenere un prodotto «funzionale», ovvero arricchito in antiossidanti e particolarmente utile, quindi, per la nostra salute; inoltre, studiando come cambiano i contenuti di tocoferoli in relazione all'ambiente di crescita delle piante è possibile capire non solo quali genotipi coltivare, ma anche come farlo al meglio. I ricercatori hanno puntato soprattutto a trovare piante ricche di alfa-tocoferolo che fosse particolarmente stabile, e Seguin riferisce: «Abbiamo verificato che le condizioni ambientali non influenzano molto i contenuti di antiossidanti, né ci sono caratteristiche del seme che incidono in modo specifico sui tocoferoli. Che, tuttavia, variano molto a seconda del genotipo prescelto: questo significa che è possibile selezionare e coltivare soia molto ricca di tocoferoli, un vero e proprio "cibo funzionale” con benefici notevoli sulla nostra salute».
SOIA – Pare che altri elementi influenzino i contenuti di antiossidanti, ad esempio il momento della semina; in attesa che la ricerca offra la «ricetta» per ottenere un super-soia ancora più efficace per prevenire e combattere tante malattie, è utile tuttavia introdurre nella dieta questo legume, che anche «al naturale» è ricco di sostanze benefiche. «Come tutti gli alimenti di origine vegetale, anche la soia è fonte di antiossidanti: non solo tocoferoli, quindi, ma una vasta serie di molecole molto diverse tra loro, che hanno in comune la proprietà di difendere il nostro organismo dal danno ossidativo, ossia dall'azione negativa dei radicali liberi – interviene Alessandra Bordoni del Centro Ricerche sulla Nutrizione del Dipartimento di Biochimica dell'università di Bologna –. La famiglia dei tocoferoli fa parte degli antiossidanti di origine alimentare. L'alfa-tocoferolo, ovvero la vitamina E, si trova soprattutto nei semi oleaginosi: perciò ne sono un'ottima fonte gli oli di semi spremuti a freddo, l'olio extravergine d'oliva, ma anche tutti i semi interi crudi, le noci e la soia. Che contiene anche antiossidanti della categoria dei polifenoli e soprattutto un'elevata quantità di isoflavoni: sono noti perché hanno un'attività simile a quella degli estrogeni femminili, ma hanno anche un'azione antiossidante».
CONSIGLI – Viste le proprietà della soia, è il caso davvero di aumentarne il consumo? «Mangiare soia in quantità è utile se serve aumentare l'introito di isoflavoni, che sono poco presenti negli altri alimenti, e non tanto se si cerca di garantirsi quantità adeguate di tocoferoli – risponde Bordoni –. Questo perché in media nella popolazione italiana l'introduzione di vitamina E è corretta grazie al buon consumo di olio extravergine di oliva, che ne è una fonte importantissima e che fa parte della nostra tradizione gastronomica». In sostanza, non è strettamente necessario cercare la vitamina E nella soia: può essere più semplice prenderla altrove, da cibi che abitualmente consumiamo. «L'importante è che l'alimentazione sia corretta e apporti una buona quantità di antiossidanti – riprende l'esperta –. Questo significa seguire una dieta ricca di prodotti di origine vegetale (5 volte al giorno, pari a 500 grammi di frutta e verdura) cercando di alternarne il tipo, visto che ogni alimento ha un suo profilo tipico di molecole antiossidanti». Non bisogna “fissarsi” su nessun cibo, insomma, ma cambiare spesso quello che si mette in tavola. Anche perché, in fondo, se la dieta è varia non ci si annoia e il gusto ci guadagna.
martedì 27 ottobre 2009
Fermenti lattici per prevenire l'obesità e il diabete
MILANO - Uno yogurt al giorno toglie obesità e diabete di torno. Così si potrebbe riadattare il vecchio detto alla luce di quanto si è discusso a Riccione, al congresso Panorama Diabete della Società Italiana di Diabetologia: secondo gli esperti infatti non c’è alcun dubbio, la flora intestinale conta, eccome, nel decidere il nostro peso sulla bilancia e pure nel proteggerci o meno dal diabete.
STUDI – La convinzione deriva dalle ricerche più recenti: una, pubblicata poco tempo fa da ricercatori finlandesi, ha scoperto che i batteri che stazionano nell’intestino fin dalla prima infanzia condizionano il peso dei bambini. Marko Kalliomaki, dell’università di Turku in Finlandia, ha studiato 49 bimbi valutandone la flora batterica intestinale a un anno di vita; dopo 6 anni ha rivisto i piccoli e ha scoperto che quelli in cui abbondavano i probiotici (i famosi bifidobatteri che si trovano anche nello yogurt) pesavano in media 4 chili di meno rispetto ai coetanei che da neonati avevano l’intestino più ricco di batteri «cattivi», come lo stafilococco. Un dato che si somma ad altri e fa dire ai diabetologi che la flora intestinale «buona», cioè i probiotici o fermenti lattici, aiuta a prevenire l’obesità e il diabete, a questa strettamente correlato. «Credevamo che la flora intestinale avesse effetto solo a livello locale, proteggendo il colon da tumori e malattie infiammatorie croniche: non è così – spiega Rosalba Giacco, relatrice alla sessione del convegno su alimentazione e diabete e ricercatrice all’Istituto di Scienze dell’Alimentazione del CNR di Avellino –. I fermenti lattici infatti producono acido acetico, propionico e butirrico: i primi due vanno nel sangue e da qui nel fegato, dove regolano la produzione epatica di glucosio e grassi come colesterolo e trigliceridi; il butirrico invece resta nell’intestino a “nutrire” le cellule dell’epitelio».
PROBIOTICI – Quando la flora «buona» scarseggia e prendono il sopravvento altri batteri, allo stesso modo gli effetti si fanno sentire anche altrove: «I batteri cattivi producono tossine che favoriscono l’infiammazione e l’aterosclerosi, riducono l’attività dell’insulina e promuovono la sintesi di colesterolo e trigliceridi», dice Giacco. Così non stupisce scoprire che negli obesi la flora intestinale è molto diversa rispetto a quella dei magri e che perdendo peso anche i batteri nell’intestino si modificano. «I batteri intestinali buoni regolano l’assorbimento dell’energia dagli alimenti: riducono del 2 per cento l’introito energetico, e ciò nell’arco di anni può fare la differenza fra essere normopeso o sovrappeso – continua la ricercatrice –. Inoltre, i probiotici hanno anche effetto stimolante su ormoni intestinali che portano a un aumento del senso di sazietà, e quindi a mangiare di meno».
PREBIOTICI – I fermenti lattici si possono introdurre da soli attraverso yogurt o simili, ma è utile anche favorirne lo sviluppo mangiando cibi che sono «graditi» ai batteri buoni, i cosiddetti prebiotici: per lo più si tratta di fibre provenienti da frutta e verdura. «Le fibre favoriscono la crescita dei batteri buoni al posto dei cattivi, che invece proliferano se si mangia molta carne o altri prodotti di origine animale – spiega Giacco –. Purtroppo anche in Italia abbiamo un po’ perso le sane abitudini della dieta mediterranea e consumiamo meno fibre rispetto al passato: ora siamo più o meno allineati ai consumi europei, che variano fra i 3 e gli 11 grammi di fibre al giorno. Poche: è bene aumentare l’introito di frutta, verdura, cereali, pasta e pane integrali, oltre che di prodotti come lo yogurt che contengono fermenti lattici. Serve a prevenire l’obesità e quindi il diabete, ma anche tumori, malattie cardiovascolari e molte malattie croniche intestinali», conclude l’esperta.
STUDI – La convinzione deriva dalle ricerche più recenti: una, pubblicata poco tempo fa da ricercatori finlandesi, ha scoperto che i batteri che stazionano nell’intestino fin dalla prima infanzia condizionano il peso dei bambini. Marko Kalliomaki, dell’università di Turku in Finlandia, ha studiato 49 bimbi valutandone la flora batterica intestinale a un anno di vita; dopo 6 anni ha rivisto i piccoli e ha scoperto che quelli in cui abbondavano i probiotici (i famosi bifidobatteri che si trovano anche nello yogurt) pesavano in media 4 chili di meno rispetto ai coetanei che da neonati avevano l’intestino più ricco di batteri «cattivi», come lo stafilococco. Un dato che si somma ad altri e fa dire ai diabetologi che la flora intestinale «buona», cioè i probiotici o fermenti lattici, aiuta a prevenire l’obesità e il diabete, a questa strettamente correlato. «Credevamo che la flora intestinale avesse effetto solo a livello locale, proteggendo il colon da tumori e malattie infiammatorie croniche: non è così – spiega Rosalba Giacco, relatrice alla sessione del convegno su alimentazione e diabete e ricercatrice all’Istituto di Scienze dell’Alimentazione del CNR di Avellino –. I fermenti lattici infatti producono acido acetico, propionico e butirrico: i primi due vanno nel sangue e da qui nel fegato, dove regolano la produzione epatica di glucosio e grassi come colesterolo e trigliceridi; il butirrico invece resta nell’intestino a “nutrire” le cellule dell’epitelio».
PROBIOTICI – Quando la flora «buona» scarseggia e prendono il sopravvento altri batteri, allo stesso modo gli effetti si fanno sentire anche altrove: «I batteri cattivi producono tossine che favoriscono l’infiammazione e l’aterosclerosi, riducono l’attività dell’insulina e promuovono la sintesi di colesterolo e trigliceridi», dice Giacco. Così non stupisce scoprire che negli obesi la flora intestinale è molto diversa rispetto a quella dei magri e che perdendo peso anche i batteri nell’intestino si modificano. «I batteri intestinali buoni regolano l’assorbimento dell’energia dagli alimenti: riducono del 2 per cento l’introito energetico, e ciò nell’arco di anni può fare la differenza fra essere normopeso o sovrappeso – continua la ricercatrice –. Inoltre, i probiotici hanno anche effetto stimolante su ormoni intestinali che portano a un aumento del senso di sazietà, e quindi a mangiare di meno».
PREBIOTICI – I fermenti lattici si possono introdurre da soli attraverso yogurt o simili, ma è utile anche favorirne lo sviluppo mangiando cibi che sono «graditi» ai batteri buoni, i cosiddetti prebiotici: per lo più si tratta di fibre provenienti da frutta e verdura. «Le fibre favoriscono la crescita dei batteri buoni al posto dei cattivi, che invece proliferano se si mangia molta carne o altri prodotti di origine animale – spiega Giacco –. Purtroppo anche in Italia abbiamo un po’ perso le sane abitudini della dieta mediterranea e consumiamo meno fibre rispetto al passato: ora siamo più o meno allineati ai consumi europei, che variano fra i 3 e gli 11 grammi di fibre al giorno. Poche: è bene aumentare l’introito di frutta, verdura, cereali, pasta e pane integrali, oltre che di prodotti come lo yogurt che contengono fermenti lattici. Serve a prevenire l’obesità e quindi il diabete, ma anche tumori, malattie cardiovascolari e molte malattie croniche intestinali», conclude l’esperta.
I cibi che conservano meglio l'udito
MILANO - Uomini, fate scorta di folati. Proprio quell'acido folico che è tanto utile per le donne in gravidanza serve infatti a ridurre il rischio di sordità, che negli uomini è più elevato: lo dimostra una ricerca presentata all'ultimo congresso dell'American Academy of Otolaryngology-Head and Neck Surgery Foundation. L’acido folico si trova in abbondanza in alcuni alimenti come le verdure a foglia verde (spinaci, broccoli, asparagi, lattuga), le arance (e il succo di arancia dal concentrato), i legumi, i cereali, frutta come limoni, kiwi e fragole, e nel fegato.
STUDIO – I dati sono stati raccolti su poco meno di 3.600 uomini con una perdita più o meno accentuata dell'udito, le cui abitudini sono state passate al setaccio soprattutto per capire l'introito di vitamine, antiossidanti e altri micronutrienti: la loro dieta è stata valutata regolarmente nel tempo perché i partecipanti provenivano dall'Health Professionals Follow-Up Study, che ha seguito dal 1986 al 2004 oltre 50 mila uomini sottoponendo loro ogni anno anche questionari specifici per valutare l'alimentazione. I risultati dell'analisi svelano che non ci sarebbe alcun effetto protettivo sull'orecchio da parte di antiossidanti come la vitamina C, la vitamina E o il betacarotene: la perdita dell'udito, in questo campione, è stata cioè indipendente dalla quantità di antiossidanti introdotti con la dieta. Invece, gli over 60 che consumavano molti cibi ricchi di folati o prendevano supplementi a base di acido folico (o vitamina B9) registravano una riduzione del 20 per cento del rischio di sordità più o meno consistente.
STUDIO – I dati sono stati raccolti su poco meno di 3.600 uomini con una perdita più o meno accentuata dell'udito, le cui abitudini sono state passate al setaccio soprattutto per capire l'introito di vitamine, antiossidanti e altri micronutrienti: la loro dieta è stata valutata regolarmente nel tempo perché i partecipanti provenivano dall'Health Professionals Follow-Up Study, che ha seguito dal 1986 al 2004 oltre 50 mila uomini sottoponendo loro ogni anno anche questionari specifici per valutare l'alimentazione. I risultati dell'analisi svelano che non ci sarebbe alcun effetto protettivo sull'orecchio da parte di antiossidanti come la vitamina C, la vitamina E o il betacarotene: la perdita dell'udito, in questo campione, è stata cioè indipendente dalla quantità di antiossidanti introdotti con la dieta. Invece, gli over 60 che consumavano molti cibi ricchi di folati o prendevano supplementi a base di acido folico (o vitamina B9) registravano una riduzione del 20 per cento del rischio di sordità più o meno consistente.
sabato 24 ottobre 2009
Farmaci: anti-sepsi rallenta
ROMA - Una molecola già in uso contro le setticemie ha mostrato la capacità di rallentare , nei topi, la progressione della Sclerosi laterale amiotrofica (SLA) o morbo di Lou Gehrig, e quindi di migliorarne il decorso. Le cavie animali trattate con questa molecola, vivono il 25% in più. Lo indica uno studio condotto presso le Università di Rochester e San Diego e pubblicato online sul Journal of Clinical Investigation.
L'ESPERIMENTO - Guidati da Berislav Zlokovic, i ricercatori hanno testato la «proteina C attivata» (APC) su topi cui è stata procurata una forma aggressiva di sclerosi laterale attraverso la mutazione del gene SOD1, fenomeno osservato in alcuni casi di SLA. La SLA è una malattia neurodegenerativa che compromette progressivamente i neuroni che controllano i movimenti. La malattia è causata da tossicità neuronale e infatti sono risultati implicati difetti genetici a carico di geni che servono a detossificare le cellule dai radicali liberi; SOD1 è tra questi. La proteina C attivata ha proprietà antinfiammatorie notevoli e riesce a passare la barriera ematoencefalica (che protegge i neuroni da sostenze tossiche potrebbero eventualmente arrivare al cervello attraverso il sangue). La proteina in questione, spiegano gli autori, ha proprietà neuroprotettive e rallenta dunque «l'avvelenamento» dei neuroni tipico della malattia. Proprio perchè APC è già in uso clinico, entro cinque anni, concludono, composti analoghi di APC potrebbero entrare in sperimentazione clinica su pazienti con Sla.
L'ESPERIMENTO - Guidati da Berislav Zlokovic, i ricercatori hanno testato la «proteina C attivata» (APC) su topi cui è stata procurata una forma aggressiva di sclerosi laterale attraverso la mutazione del gene SOD1, fenomeno osservato in alcuni casi di SLA. La SLA è una malattia neurodegenerativa che compromette progressivamente i neuroni che controllano i movimenti. La malattia è causata da tossicità neuronale e infatti sono risultati implicati difetti genetici a carico di geni che servono a detossificare le cellule dai radicali liberi; SOD1 è tra questi. La proteina C attivata ha proprietà antinfiammatorie notevoli e riesce a passare la barriera ematoencefalica (che protegge i neuroni da sostenze tossiche potrebbero eventualmente arrivare al cervello attraverso il sangue). La proteina in questione, spiegano gli autori, ha proprietà neuroprotettive e rallenta dunque «l'avvelenamento» dei neuroni tipico della malattia. Proprio perchè APC è già in uso clinico, entro cinque anni, concludono, composti analoghi di APC potrebbero entrare in sperimentazione clinica su pazienti con Sla.
venerdì 16 ottobre 2009
Vino: un piccolo aiuto contro il cancro
In alcuni casi il vino può avere effetti positivi, se assunto con moderazione, infatti ne basta un bicchiere per aiutare a contrastare gli effetti negativi della radioterapia. A scoprirlo un team di ricercatori italiani dell’università Cattolica di Campobasso, che con il loro studio hanno guadagnato le pagine dell’International Journal of Radiation Oncology Biology.
Le radiazioni usate per combattere il cancro colpiscono, come è noto, anche i tessuti sani vicini, primo fra tutti la pelle che devono attraversare, provocando molto spesso effetti collaterali anche rilevanti. È in questo campo che il vino rivela un suo lato nuovo e inatteso: proteggere quei tessuti dalle radiazioni, senza peraltro diminuire l’efficacia della radioterapia nel danneggiare le cellule cancerose. A favorire questo effetto benefico non sarebbe l’alcol, ma altri componenti contenuti nel vino, primi fra tutti gli antiossidanti della categoria dei polifenoli.
La ricerca, condotta dall’unità operativa di Radioterapia e terapie palliative del dipartimento di oncologia e dai laboratori di ricerca dell’università Cattolica di Campobasso, ha preso in esame 348 donne malate di tumore al seno e sottoposte a radioterapia nello stesso centro molisano da febbraio 2003 a giugno 2007. Oltre alle normali informazioni cliniche necessarie per l’inizio della cura, ciascuna paziente aveva fornito informazioni sul suo stile alimentare e sulle sue abitudini di vita, incluso il consumo di bevande alcoliche e specificamente di vino.
Ciò che i ricercatori hanno esaminato è il danno che le radiazioni potevano provocare nella pelle del seno, un tipo di lesione misurato con una scala di gravità crescente. I risultati mostrano come le donne che avevano l’abitudine di bere moderate quantità di vino presentavano lesioni della pelle significativamente inferiori rispetto a quelle astemie.
«I nostri dati - spiega Alessio Morganti, direttore dell’unità di Radioterapia - mostrano che il consumo giornaliero moderato di vino presenta un rischio di danni cutanei mediamente inferiore del 75% rispetto a una paziente astemia. Questo lavoro va nella stessa direzione di alcuni studi precedenti, condotti in altri laboratori internazionali, che avevano mostrato come le componenti non alcoliche del vino, soprattutto i polifenoli, abbiano la capacità di proteggere il Dna dalle radiazioni. Naturalmente c’è ancora molto lavoro da fare per scandagliare nei dettagli questi effetti positivi del vino, ad esempio studiare se c’è differenza tra bianco e rosso».
«Un punto cruciale - prosegue l’esperto - sarà confermare direttamente il ruolo della componente non alcolica del vino, che potrebbe aprire la strada a un uso terapeutico di quegli antiossidanti. In ogni caso la possibilità che una particolare dieta o abitudine alimentare possa ridurre gli effetti collaterali della radioterapia è un’acquisizione decisamente imprevista e innovativa».
«Moderazione - ci tiene a sottolineare Giovanni de Gaetano, direttore dei Laboratori di ricerca - è la parola chiave quando abbiamo a che fare con bevande alcoliche. Nel caso delle donne sottoposte a radioterapia per il tumore al seno stiamo parlando di un bicchiere di vino al giorno, quindi una dose molto bassa, compatibile con le abitudini mediterranee. Naturalmente non sarebbe corretto - precisa - consigliare a una paziente astemia di cominciare a consumare vino prima di un trattamento radioterapico, ma emerge ancora una volta la validità della dieta mediterranea come stile di vita salutare».
Le radiazioni usate per combattere il cancro colpiscono, come è noto, anche i tessuti sani vicini, primo fra tutti la pelle che devono attraversare, provocando molto spesso effetti collaterali anche rilevanti. È in questo campo che il vino rivela un suo lato nuovo e inatteso: proteggere quei tessuti dalle radiazioni, senza peraltro diminuire l’efficacia della radioterapia nel danneggiare le cellule cancerose. A favorire questo effetto benefico non sarebbe l’alcol, ma altri componenti contenuti nel vino, primi fra tutti gli antiossidanti della categoria dei polifenoli.
La ricerca, condotta dall’unità operativa di Radioterapia e terapie palliative del dipartimento di oncologia e dai laboratori di ricerca dell’università Cattolica di Campobasso, ha preso in esame 348 donne malate di tumore al seno e sottoposte a radioterapia nello stesso centro molisano da febbraio 2003 a giugno 2007. Oltre alle normali informazioni cliniche necessarie per l’inizio della cura, ciascuna paziente aveva fornito informazioni sul suo stile alimentare e sulle sue abitudini di vita, incluso il consumo di bevande alcoliche e specificamente di vino.
Ciò che i ricercatori hanno esaminato è il danno che le radiazioni potevano provocare nella pelle del seno, un tipo di lesione misurato con una scala di gravità crescente. I risultati mostrano come le donne che avevano l’abitudine di bere moderate quantità di vino presentavano lesioni della pelle significativamente inferiori rispetto a quelle astemie.
«I nostri dati - spiega Alessio Morganti, direttore dell’unità di Radioterapia - mostrano che il consumo giornaliero moderato di vino presenta un rischio di danni cutanei mediamente inferiore del 75% rispetto a una paziente astemia. Questo lavoro va nella stessa direzione di alcuni studi precedenti, condotti in altri laboratori internazionali, che avevano mostrato come le componenti non alcoliche del vino, soprattutto i polifenoli, abbiano la capacità di proteggere il Dna dalle radiazioni. Naturalmente c’è ancora molto lavoro da fare per scandagliare nei dettagli questi effetti positivi del vino, ad esempio studiare se c’è differenza tra bianco e rosso».
«Un punto cruciale - prosegue l’esperto - sarà confermare direttamente il ruolo della componente non alcolica del vino, che potrebbe aprire la strada a un uso terapeutico di quegli antiossidanti. In ogni caso la possibilità che una particolare dieta o abitudine alimentare possa ridurre gli effetti collaterali della radioterapia è un’acquisizione decisamente imprevista e innovativa».
«Moderazione - ci tiene a sottolineare Giovanni de Gaetano, direttore dei Laboratori di ricerca - è la parola chiave quando abbiamo a che fare con bevande alcoliche. Nel caso delle donne sottoposte a radioterapia per il tumore al seno stiamo parlando di un bicchiere di vino al giorno, quindi una dose molto bassa, compatibile con le abitudini mediterranee. Naturalmente non sarebbe corretto - precisa - consigliare a una paziente astemia di cominciare a consumare vino prima di un trattamento radioterapico, ma emerge ancora una volta la validità della dieta mediterranea come stile di vita salutare».
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